di Fabrice Hadjadj
regia di Andrea Maria Carabelli
contributo audio di Sandro Lombardi
con Matteo Bonanni e Andrea Maria Carabelli
e con la cantante lirica Dina Perekodko
assistente alla regia Matteo Bonanni
dramaturg Fabrizio Sinisi
scenografo Roberto Abbiati
Produzione Teatro de Gli Incamminati
La scena si apre su un Dio che immediatamente, intimo e familiare, supera il vuoto che lo separa dagli spettatori, sussurra loro da vicino come il più geloso confidente. Segue un dialogo tra Dio e Satana dove a confliggere non sono il Bene e il Male, o non appena questi, ma la tenerezza e la rabbia, la gioia e l'avvilimento: la vicenda di Giobbe è già tutta delineata in queste poche battute. Così, quando in terza battuta Fabrice Hadjadi colloca Giobbe in un letto d'ospedale, attaccato ad una flebo, lo spettatore sa già bene qual è la posta in gioco. Quello che con Giobbe va in scena nelle sequenze successive è la vita come incontro e come rituale: gli amici e la moglie vanno a visitarlo, uno per uno, e ciascuno di loro esprime un punto di vista sempre diverso; ma ogni posizione è, almeno per un aspetto, sempre comune: essa mira ad abbassare il tiro della questione. La sofferenza di Giobbe viene sempre ridotta a qualcosa di causale, di non decisivo.
E solo nel monologo finale, curiosamente - genialmente - dedicato non al dolore ma alla gioia, esplode tutta la verità della figura di Giobbe: attraversamento del dolore, sì; ma per arrivare ad una comprensione di che cosa il dolore e la sofferenza veramente sono:
un'esigenza, una domanda, una tensione inestinguibile - ma, soprattutto, una vita.
Fabrizio Sinisi
NOTA INTRODUTTIVA al testo
di Sandro Lombardi
Se è vero, come diceva Mario Luzi, che un’opera è attuale quando continua ininterrotta ad agire nel presente, in contemporaneità con esso, allora questo criterio vale in misura ancor maggiore per un testo contemporaneo – ed è con questo interrogativo che ho tentato di accostare questa insolita pié ce di Fabrice Hadjadi. Ed è interessante rilevare come il testo resista effettivamente alla prova del nostro tempo: non in virtù di tematiche più o meno incidenti nella nostra cronaca, ma nella sua confidenza, nella sua intima familiarità con le cose eterne dell’uomo: il destino, l’amore, il rapporto con il divino, ma – soprattutto – il dolore e la possibilità che questo abbia un senso. È qui infatti che Job rivela tutta la sua potenzialità e la sua pertinenza: andando a interrogare qualcosa che da sempre ha interrogato l’uomo, e sempre forse lo interrogherà: il supremo scandalo del suo esistere, il nocciolo profondo del suo mistero. È quindi a questo livello che Hadjadi gioca la sua partita: quello di un attraversamento cognitivo del dolore sulla base di un’ostinazione, certo, di una pazienza – come vuole, a mio parere solo parzialmente giustificata, la tradizione su Giobbe – ma anche di un rischio e di una scommessa: quella sottesa, seppure mai esplicitata, della Risurrezione. Attraversa queste pagine un’insopprimibile tensione di speranza che ricorda quanto nell’aprile 1979 scriveva Giovanni Testori sul Corriere della sera: «Senonché, dopo la Passione di Cristo e dopo la sua Resurrezione, il dolore dell’uomo non è più un dolore cieco, un dolore muto, un dolore demente, folle e disperato; bensì un dolore che conduce l’uomo nel grembo stesso della sua speranza; un dolore che lo conduce a raggiungere il senso primo ed ultimo della sua vita. È dunque un dolore santo, un dolore attivo, anche storicamente, anche socialmente; un dolore, ecco, felice». L’attualità di questo testo, la sua sinergia con le nostre urgenze esistenziali più pressanti, mi sembra che non stia tanto nelle – relativamente facili – collocazioni di temi e oggetti degli anni nostri in una tessitura testuale fondamentalmente ancora biblica, ma nel giocarsi una partita serrata, fiduciosa e attenta con questa scommessa, con questa possibilità: questa pervicace speranza che Giobbe, forse, non sceglie – da cui pare lui stesso scelto, personalmente scelto.
Questa differenza emerge anche nel confronto con un’altra, altissima, ripresa letteraria del personaggio di Giobbe: il Giobbe, appunto, di Joseph Roth, romanzo in cui il protagonista Mendel Singer, ebreo osservante nell’Europa alle soglie della Prima Guerra Mondiale, subisce ogni sorta di disgrazie: che lo portano a rinnegare e addirittura a bestemmiare quel Dio da cui sentiva provenire solo il male. Per poi, dopo un colpo di scena nel finale, recuperarne il rapporto nella scoperta che la grazia, imprevista e imprevedibile, lo aveva preceduto quando anche la speranza l’aveva ormai abbandonato. Nel Giobbe di Hadjadi questo non avviene: non c’è un crollo del protagonista; mai Giobbe si abbandona alla bestemmia e alla recriminazione, per quanto i suoi stessi amici – e qui sta uno dei rovelli della vicenda – lo incoraggino ad abbandonare la partita o a cedere alla furia della recriminazione. Non certo, io credo, perché Hadjadi sia caratterialmente più mite di quanto lo fosse Roth: ma perché nel testo di Hadjadi è in azione un’istanza diversa, una diversa percezione del divino nella vita. Il Dio del Giobbe di Hadjadi è sorprendentemente vicino, intimo: e questo anche lo spettatore lo sa, non meglio, ma certo più consapevolmente dello stesso Giobbe, già dal monologo iniziale: è un Dio che ha travalicato il vuoto che lo separa dalla sua creatura. E il dolore non è la dilatazione di quel vuoto, ma piuttosto la strada – dura, incomprensibile, scandalosa – che Egli sceglie per arrivare al cuore della vicenda umana: «Io conosco ogni presente / come il mio respiro, / come il mio unico figlio, / come la mia fidanzata sotto gli alberi in fiore».
nota introduttiva allo spettacolo
di Andrea Maria Carabelli
Un senso della vita, una ipotesi di concezione di essa la si ricava essenzialmente dalla posizione che si assume di fronte al dolore e più di ogni altro dolore di fronte alla morte. Giobbe è costretto a riflettere sul senso della vita proprio perché si trova in una condizione di dolore: fisico, mentale e spirituale. Sopra un letto d’ospedale osserva dalla finestra la bellezza del creato così magnificente ora che è primavera; da qui la domanda anzi il grido con cui manifesta la terribile contraddizione rispetto alla sua condizione di infermità.
Dal prologo iniziale tra Dio e il diavolo scaturiscono tutti i dialoghi di Giobbe con le persone a lui più care. Dopo aver fallito mettendogli contro i nemici ed ogni sorta di avversità, il diavolo prova ora l’ultima carta, mettergli contro gli amici. Che cosa significa metterglieli contro? Se sono amici è perché vogliono bene a Giobbe. Ma a lui che vorrebbe solo una mano da stringere per accompagnarlo in questo supplizio, propongono una soluzione che tentativamente sistemi, anestetizzi o dimentichi il dolore.
Ognuno dei personaggi rappresenta dunque non solo una persona cara a Giobbe ma anche una concezione di vita, una “soluzione” che impedisce proprio il rapporto con il malato.
Ogni personaggio che segue rappresenta un passo in più rispetto al precedente, anzi sembra quasi generarsi dallo sviluppo del dialogo appena trascorso. Da qui l’idea di farle rappresentare tutte da un solo attore. Come anche a dire che queste posizioni sono tentazioni di ogni uomo.
Le posizioni umane dunque sono sempre più serie, fino ad arrivare all’ultimo, Elihu, il padre confessore, disposto realmente a dialogare con lui e pronto a dargli i consigli più veri e sinceri. Ma anche lui, per un amaro destino di circostanze cederà e si allontanerà.
Eppure l’ultimo monologo non è un soliloquio di chi rimane da solo di fronte al Mistero, ma un dialogo con la Gioia di cui si è sentita la presenza per tutto il dramma e che ora finalmente si può nominare. Dalla contraddizione alla constatazione, dall’assurdo all’amore.
necessità tecniche
- Durata: 80 minuti circa
- Attori in scena: 4
- spazio scenico minimo utilizzato: m 6x6
- Luogo di svolgimento: Teatro/ sala oscurabile. Preferibilmente palco rialzato
- Carico luci: 4 kw
- Prese utilizzate: presa penta polare da 32 A
- Montaggio: 5 ore
- Smontaggio: 3 ore
- Capo tecnico: Matteo Bonanni